Gli Italiani d’America non Lavorano in Squadra (America Oggi)

Editoriale puublicato il 6 Maggio 2012 nella sezione “Analisi e Commenti” del maggiore giornale in Lingua Italiana degli stati Uniti

Pubblichiamo un estratto del “keynote address” del giornalista Stefano Salimbeni al primo compleanno della Italian Cultural Foundation of Rhode Island, associazione di Providence, Rhode Island fondata dalla conduttrice radiofonica Maria Gina Aiello in occasione del 150esimo anniversario dell’Unità d’Italia per raccogliere e coordinare le energie italoamericane dello Stato con la percentuale più alta di residenti (uno su cinque) di origine italiana.

Dopo aver ricordato l’entità dei contributi italiani passati e presenti – con una serie di esempi tratti dalla sua decennale collaborazione con Rai International – Salimbeni, attualmente corrispondente Usa del settimanale Famglia Cristiana, rivolge questo invito accorato all’unità e alla collaborazione ai quasi 200 presenti, e idealmente a tutti gli Italiani d’America.

Noi italiani abbiamo cambiato questo Paese e stiamo continuando a cambiarlo – in meglio, nella gran parte dei casi.

Tuttavia, per noi, passato e presente non sempre vanno d’accordo. In America italiani giovani e meno giovani dovrebbero comunicare e sentirsi sullo stesso piano. Molto più di quanto stiano facendo. Dopo tutto, anche se partiti con sogni diversi, sia gli uni che gli altri sono venuti fin qui per realizzarli.

C’è un abisso tra quelli arrivati qui dopo la seconda guerra mondiale e quelli venuti alla spicciolata negli ultimi decenni. I primi sono scappati da un Paese a pezzi, spesso richiamati qui dai parenti e per questo inseritisi facilmente nel solco sociale e culturale tracciato, faticosamente, dai loro predecessori. I secondi, no.

Credo che tutti siano parzialmente responsabili per questo enorme divario e che dunque tutti debbano fare dei passi per ridurlo. Secondo me, tocca ai giovani fare quelli più lunghi.

Innanzitutto i giovani italiani dovrebbero smettere di snobbare i più anziani. Di guardare loro e le loro attività – non importa quanto colorite, stravaganti, e radicate in un passato remoto – come se fossero mostri a tre teste. Dovrebbero capire che processioni, feste religiose, tarantelle, cene danzanti e quant’altro, hanno mantenuto in vita i loro predecessori, almeno per quanto riguarda l’identità. Per molti anni è stato un modo per tener duro, per “fare comunità”, contro tutte le forze che li costringevano ad integrarsi nella società americana rinunciando ‘in totò a ciò che li identificava.

E loro hanno continuato a farlo, a tener duro, malgrado (e a dispetto di) pregiudizi e discriminazione riuscendo alla fine a dimostrare alla Nazione che… “No, non siamo tutti mafiosi, sporchi e pigri mangiatori di aglio”. Oggi sarà anche di moda ma negli anni 30 e 40 e 50, lo so per certo dalle centinaia di racconti ascoltati nei miei reportage, ci voleva fegato per urlare “Viva la Madonna” con una statua gigante della Vergine in spalla per le strade delle tante Little Italy d’America.

Il fatto è che questa gente, dagli “strani” dialetti e ancora più “strane” tradizioni ha preparato il campo per i nuovi arrivati, convincendo generazione dopo generazione, l’America della bontà, della serietà, del valore degli Italiani, fino a farla innamorare di noi. Poi sono arrivati I giovani, professionisti medici e ricercatori e ad accoglierli si sono trovati un Paese che ormai alla frase “vengo dall’Italia” di solito risponde “Fico!” Ebbene, i nuovi “acculturati” emigranti dovrebbero prendere in considerazione il fatto che non sempre è stato così… e ogni tanto gustarsi un panino alle polpette con i loro compatrioti più stagionati.

Dall’altra parte di questo canyon i “veterani” dovrebbero smettere di guardare i nuovi arrivati dall’alto in basso, abbandonare a loro volta gli stereotipi su ciò che è italiano e ciò che non lo è, magari imparare la lingua o almeno informarsi su ciò che l’Italia è veramente diventata e, nel bene e nel male, rappresenta. Oggi, con il mondo a portata di mouse, non ci sono davvero più scuse.

Inoltre dovrebbero sbarazzarsi dei litigi e delle polemiche intestine su dettagli insignificanti o peggio su giochi interni di potere. Dovunque in questo Paese, gli Italiani non sembrano in grado di lavorare in squadra. Bisticciano e si ‘scornanò praticamente su tutto. Sapere di essere in gamba è un’ottima cosa, pensare di essere più in gamba di tutti compresi quelli che ci circondano, no.

Questo, su scala nazionale, è, secondo me, uno dei principali motivi per cui uno stereotipo negativo su altra minoranza o etnia ti fa finire automaticamente su un podio con lo sguardo basso a scusarti pubblicamente mentre chiamare Mafiosi noi italiani, non importa in quale contesto, al massimo suscita una risata generale. Beh, alla lunga questa cosa sta diventando tutt’altro che divertente.

I veterani dovrebbero invece concentrarsi nel far trovare ai nuovi arrivati una vera comunità, con un calendario di eventi e attività che attiri e interessi tutti. Così che i loro figli e i nuovi figli di Italia non si ritrovino come invece sta già succendendo in luoghi completamente separati e impermeabili l’uno all’altro della società americana.

Ciò che davvero intendo, e con ciò concludo davvero, e che abbiamo in mano un enorme potenziale, in gran parte ancora inespresso. Cerchiamo di non sprecarlo!

[…]

Sventoliamo lo stesso tricolore, condividiamo lo stesso Dna e a volte (come accade al sottoscritto) ci sentiamo più italiani qui che in Patria. Approfittiamone. Spingiamo tutti nella stessa direzione invece di sprecare tempo ed energia per combatterci l’un l’altro.

Se c’è un cosa che ho imparato dai miei dieci anni di collaborazione con Rai International è questa, e con questa vi voglio lasciare: quando riusciamo a lavorare insieme – DAVVERO insieme – noi italiani siamo imbattibili.

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