Amore e “Tigna”!

I miei cinque mesi nelle grinfie di “Afasía”,
e la ricetta vincente per sbarazzarmene.

Cari lettori, immaginate un giorno di svegliarvi e, di punto in bianco, non essere piu’ in grado di pronunciare, o di scrivere il vostro nome di battesimo. Ecco, il 7 luglio scorso, e’ successo a me!

Certo nel mio caso non si trattava esattamente di un ‘risveglio’ come tanti altri, bensi’ l’emersione da un giorno e mezzo di anestesia a seguito di un intervento chirurgico ‘a cuore aperto’. Intervento complesso, ci mancherebbe altro, tuttavia ‘preventivo’, programmato da mesi, con analisi, contro analisi, (per stabilire il mio perfetto stato di salute prima di fare … altre analisi!), consulti col chirurgo, … addirittura con la data praticamente stabilita da me tenendo conto – prima di tutto – del ‘letargo’ estivo della programmazione RAI nonche’ di una serie di altre coincidenze personali favorevoli – non da ultima la lunga assenza causa campo estivo di mio figlio undicenne, al quale volevo risparmiare la visione di sonde, cateteri, e quant’altro accompagna la convalescenza del reduce di un’operazione come la mia.

Si’ perche’, mio malgrado, io quella trafila la conoscevo bene: undici anni prima ne avevo subita un’altra di operazione cosi’ (di quelle che ti squartano come un tacchino la vigilia del giorno del ringraziamento) e sapevo benissimo come ci si sente al risveglio – e se tutto va bene, come per fortuna ando’ a me – per almeno un paio di mesi dopo. Ma quella fu una sorpresa, di quelle che ti fa la natura, che prima ti fa nascere, (senza dirtelo) con qualcosa che funziona poco e male (nel mio caso l’aorta) e poi te ne fa accorgere quando meno te lo aspetti nel peggiore dei modi.

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L’operazione dello scorso luglio invece era – in teoria – talmente tranquilla da essere definita “di manutenzione” dallo stesso cardiologo che il 20 maggio 2006 mi aveva ripreso “per i capelli” – per non dire di peggio. “Fondamentalmente c’e’ da finire il lavoro iniziato l’altra volta” mi aveva detto con linguaggio da ordinaria amministrazione e quell’aplomb illuminista dei medici che, statistiche e pubblicazioni alla mano, sanno di essere bravi davvero. Dunque, stavolta soprese non ce ne sarebbero dovute essere! Al punto che un paio di giorni prima dell’intervento, mi chiamano dal suo ufficio e con un tono da preventivo dell’idraulico mi dicono: ”Quattro ore, quattro ore e mezza massimo, e passa la paura”.

Invece la sorpresa c’e’ stata eccome! Tanto per cominciare di ore ce ne sono volute undici – alla faccia dell’ordinaria amministrazione! E in quanto alla paura, .. beh non solo non e’ passata una volta ricucito il taglio (e riattaccato lo sterno) ma anzi da normale apprensione pre-operatoria si e’ tramutata, senza esagerare, in terrore!

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Praticamente al mio risveglio non parlavo piu! Ovvero la voce usciva, forte e chiara come sempre, ma i suoni che producevo non erano piu’ quelli che volevo io. E nonostante le parole e le sillabe fossero chiare nella mia mente, non’ c’era verso di metterle in ordine e di farle uscire come si deve. In nessuna delle quattro lingue che sapevo, capivo, leggevo e parlavo correntemente. Ok, proviamo a scrivere, dissi … o meglio, pensai. Per carita’, peggio che andar di notte! Dalla penna uscivano solo ghirigori, una sorta di virgole allungate senza ne capo ne coda, tutte piu’ o meno uguali, e tutte assolutamente … inutili!!

Il perche’ me lo hanno spiegato quasi subito: in inglese si chiama “Stroke”; in italiano “Ictus” (entrambi suonano – giustamente – tremendi visto la bestiaccia che descrivono) e in realta’ in tutti gli ospedali che si rispettino figura nella lista di possibili complicanze della chirurgia (qualsiasi chirurgia!), quella che firmano tutti (ma che in realta’ – anche per scaramanzia – nessuno legge) prima di farsi operare. Non succede spesso (la statistica parla del 3-5 percento dei casi) , ma succede. E con frequenza maggiore, sembra, in soggetti gia’ operati!

Nel mio caso ad avere la peggio e stata la cosiddetta “Zona di Broca” (dal nome dello scienziato francese che per primo la studio’ a meta’ dell’800!) che gestisce per’ l’appunto il linguaggio – parlato e scritto. Anche il “disturbo”, se cosi’ vogliamo chiamarlo, ha un nome proprio, dal suono molto piu’ morbido di quello della sua causa: “Aphasia”, in inglese, “Afasía’” .. coll’accento sulla i, in Italiano.

(Nome quasi esotico, da principessa, un po’ misteriosa, conosciuta a chissa’ quale festa, … una di quelle con una personalita’ e una storia intriganti, che piacciono tanto a me, .. con cui magari finisci a letto …, e che quando hai capito di che pasta e’ fatta e’ troppo tardi … e poi ci vogliono mesi – se non addirittura anni – per sbarazzarsene del tutto! Credetemi, cari lettori, so esattamente di cosa parlo e, ahime’, non solo per sentito dire!!)

Il problema principale pero’ e’ che con esattezza, quando passa e soprattutto SE passa, visto che ogni cervello e’ diverso dagli altri, non lo sa nessuno, a prescindere da statistiche e pubblicazioni. … Alla faccia dell’illuminismo!!

Intendiamoci, non riuscire a rispondere alla domanda “Come ti chiami?” ne’ a voce ne’ per iscritto e’ un incubo per chiunque. Ma per chi ha fatto del giornalismo – e dunque della comunicazione – la sua ragione di vita, e’ praticamente una condanna a morte. Se poi uno dei neurologi in forza da anni ad uno degli ospedali piu’ quotati al mondo dopo averti visto – e sentito farfugliare frasi insensate – un paio di volte ti dice “Eh, … e’ grave, ci vorra’ del tempo, .. 6 mesi, .. un anno, forse due … chissa’, forse del tutto non passera’ mai …” su quella condanna appare il sigillo, la firma e con un po’ di immaginazione anche la faccia del boia (anzi di Afasía’) che ride. “Adesso si riposi,” aveva concluso sto luminare del c…! Italiano, per giunta!

Certo lui dopo quella prognosi non avrebbe avuto problemi a prendere sonno: presentarmi lo scenario peggiore lo avrebbe messo al sicuro da ogni mio tentativo di rivalsa legale – e dunque economica – nei confronti suoi e dell’Ospedale, nell’ipotesi di tempi di recupero piu’ lunghi del previsto. E’ una pratica tipicamente americana (dove ormai gli avvocati comandano piu’ dei presidenti): io ti dico che il ginocchio guarisce in tre mesi, anche se so benissimo che ne potrebbe bastare uno: se guarisce prima meglio per tutti, ma intanto se tu in quei tre mesi ti iscrivi a una gara di atletica e la perdi, l’equivalente in oro della medaglia persa (piu’ spese legali – spesso piu’ costose della medaglia stessa) non puoi venirlo a chiedere a me.

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In realta’ nella logica del costosissimo (e – a parte le innegabili punte di eccellenza – spesso piu’ inefficiente del nostro) sistema americano, tutto fila; compreso il fatto di fregarsene altamente dello stato d’animo del paziente (grazie al quale tutti gli anelli della catena medico-sanitaria mangiano – molto piu’ di quanto dovrebbero). Nel mio caso poi sarebbe stato piu’ che mai fondamentale, visto che e’ l’unico parametro di recupero su cui la dottrina in questo campo della neurologia e’ universalmente d’accordo.

“Si riposi, dice lui …”! Per quanto mi riguarda, una volta mandato a casa, nel Sobborgo di Boston dove vivo da vent’anni che dopo due settimane non riuscivo ancora a pronunciare – c’era di che svuotare la boccetta degli antidolorifici (che qui – in virtu’ dell’ennesima truffa ai danni di chi soffre – non mancano mai) nel frullatore insieme a un bel bicchiere di Brunello di quelli costosi e … “riposarsi” … va be’, lasciamo stare!!!

Invece, per la seconda volta consecutiva in 11 anni, quella boccetta e’ rimasta chiusa – anche per quelle poche necessarie pillole che avrei potuto, forse dovuto, prendere. Ma stavolta piu’ che mai c’era da star lucidi, per sconfiggere prima possibile quello che in fondo era il dolore peggiore, causato, per fare uno dei mille esempi, dal non potere accendere il computer, perche’ la mia password (“Stefano”) era diventata troppo complicata da battere sulla tastiera. Dunque mobiletto delle medicine chiuso e quadernoni aperti, penna in mano, Skype acceso e via andare: c’era da re-imparare a scrivere, e a dire Stefano Salimbeni CNN, altro che Prozac!!

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… vi risparmio i due mesi seguenti.

Vi dico solo che da un lato sono stati costellati da “terapie” varie – infrequenti, superficiali, e fondamentalmente inutili per me, ma ottime per contribuire al folle giro d’affari di quell’associazione a delinquere legalizzata composta da assicurazioni, ospedali, aziende medicali e farmaceutiche, politici a vari livelli e una variegata pletora di figure intermedie. (Non posso farci niente, ma se la sanita’ Americana mi dava fastidio da contribuente, da malato mi ha dato e continua a darmi il voltastomaco – anche adesso che malato fortunatamente non sono piu’!)

E dall’altro, da tanta cara vecchia e utilissima “tigna” come si definisce dalle mie parti la forza di volonta’, la caparbieta’ di chi, nonostante tutto, non si arrende davanti a un ostacolo e combatte anche sopra le proprie forze per abbatterlo. ‘Tigna’ nel parlare, ‘tigna’ nello scrivere, ‘tigna’ anche nel cantare, ‘tigna’ nel fregarsene degli errori, o meglio nel riderci sopra anche quando non fanno ridere ma bensi’ preoccupano e fanno incazzare, e poi farne tesoro a uno a uno per non ripeterli la volta seguente.

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Ma la ‘tigna’ da sola non basta. Per alimentarla ci vuole amore (si, questo si chiama cosi’ anche da noi!). E nei primi due mesi quel benzinaio, veramente non ha chiuso mai! Alla pompa di quel fondamentale combustibile si sono alternati senza sosta famiglia e amici, in Italia e qui, con la loro presenza, virtuale o fisica, l’aiuto costante nel gestire la vita normale, nel fare progressi, monitorarli, nel creare occasioni continue per metterli in atto. E soprattutto non permettendo, mai, MAI, nemmeno per un attimo, che mi sentissi solo.

Il resto, cari lettori, e’ storia – relativamente – recente, o almeno cosi’ sembra a me. Un periodo di graduale ritorno alla normalita’, dove dalla prima trasferta a Detroit, commissionatami dalla redazione RAI completamente ignara del tutto, alla messa in onda negli ultimi due mesi di ben 6 pezzi (post-Ictus), dalle prime sortite, prima private poi via via sempre piu’ pubbliche con la mia Band Americana “I Salimblues”, all’uscita del Quinto disco del mio Gruppo storico fabrianese, “I Motozappa”, ogni motivo normale di soddisfazione aveva quell’attimo di esultanza in piu, come un gol fatto in Coppa in casa dell’avversario, con la dolce consapevolezza che “i guardiani del distributore” erano, e sono, sempre li’ sugli spalti, a fare il tifo.

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Certo che da quando, dalla finestra con vista sul porto del (lussuoso, climatizzato e chiaramente costosissimo) ospedale di riabilitazione, vedevo la gente boccheggiare per il caldo, mi sembra passato mezzo secolo: invece guardando la neve che scende fuori dalla mia finestra a Somerville (adesso lo so scrivere e anche dire bene!) che rispecchia le lucine dell’albero di Natale appena fatto, mi rendo conto che non e’ passato nemmeno mezzo anno, e che, viste le premesse in fondo non e’ andata poi cosi’ male.

Tanto per cominciare a Natale anche quest’anno ci siamo arrivati, vivi e in salute, e come si dice dalle mie parti, niente non’e’. Specie dopo aver visto con i miei occhi, sui miei temporanei co-inqulini di quel lussuoso albergo vista mare, i danni che puo’ fare una cosa come la mia. Poi sto scrivendo questo (interminabile, lo so) articolo con le mie mani, anzi con il mio cervello, che a parte qualche consonante fuori posto qua e la’ mi sembra stia facendo un discreto lavoro.

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A onor del vero va detto che molto del lavoro, il cervello l’ha probabilmente fatto da se. Di fatto, un’altra delle poche cose note di questo organo (che adesso ci ha preso gusto, visto che parliamo di lui e non mi fa piu’ smettere di scrivere , ) e’ il fatto che se allenato e ospitato da un organismo relativamente sano, riesce a ricostruirsi a tempo di record – cosa che magari il neurologo italiano diventato col tempo piu’ stronzo dei colleghi locali poteva anche dirmi! Cio non toglie che i tanti complimenti ricevuti negli ultimi tempi sui miei ‘gioielli di famiglia’ (in senso figurato, si intende), li incasso volentieri e con piacere. Pur continuando a ricordare sempre a tutti, (un po’ come si fa con il cameraman con chi ti fa i complimenti per la televisione), che se viene a mancare la benzina di cui sopra dopo un po’ si sgonfiano anche quelli.

Eppure, cari lettori, (e adesso concludo davvero) non riesco a liberarmi della sensazione frustrante e sgradevole di aver perso un sacco di tempo.

Si dice che le brutte esperienze insegnano sempre qualche lezione. Purtroppo non e’ il mio caso: infatti per la seconda volta (come gia’ scrissi in occasione della prima) non riesco a capire quali. La parola, scritta e orale l’apprezzavo gia’ abbastanza, al punto da farne, ripeto una ragione di vita; della mia vita normale pur con tutto il suo carico di stress ero gia’ innamorato cotto, al punto da far scrivere a caratteri ben visibili sulla lavagnetta della mia camera di ospedale “La Rivoglio Indietro!” cosi’ che i tanti ‘luminari’ che venivano a visitarmi (e ne sono venuti tanti) capissero che razza di guaio avevano combinato. Infine sul mio capitale di affetti (su cui investo, pesantemente, da tutta la vita) non avevo dubbio alcuno: citando Eugenio Finardi “la forza dell’Amore, la conoscevo gia’” (E vero che ha anche scritto che “a Boston si muore di noia” ma su quello siamo un po’ meno d’accordo).

E’ vero che poteva andare peggio, ma se la statistica e’ corretta, poteva – come succede in 95 casi su 100 – anche andare meglio. O no? E senza questa complicazione non avrei passato l’estate e parte dell’autunno a re-imparare lingue gia’ note, e secondo le illuministiche certezze dei dottori (che diventano fatalisti solo quando c’e’ da farti firmare le liberatorie legali) per ferragosto sarei stato come nuovo!!

Invece sono ancora qui con quella gran zoccola di Afasía, ancora dentro casa, che ogni tanto fa capolino dall’altra stanza, e sorride beffarda quando ci metto quella frazione di secondo in piu’ a capire se la “r” sta prima della “s” o dopo la “t”. Eppure, ogni giorno che passa, si avvicina sempre piu’ alla porta di ingresso, quella che da sulla scala esterna, da dove presto – ormai molto presto – la sbattero’ fuori a calci in culo. E allora, solo allora, andro’ a trovare il neurologo, anche perche’ voglio essere assolutamente sicuro che, quando ci parlo, tutte le consonanti: la “v”, la doppia “f” la “n”, la “c” e la “l” siano al posto giusto!

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